lunedì 6 maggio 2013

Storia di una formica


Tutti i giorni, molto presto, arrivava in ufficio la Formica produttiva e felice. Lì trascorreva i suoi giorni, lavorando e canticchiando una vecchia canzone d'amore. Era produttiva e felice ma, ahime, non era supervisionata.
Il Calabrone, gestore generale, considerò la cosa impossibile e creò il posto di supervisore, per il quale assunsero uno Scarafaggio con molta esperienza.
La prima preoccupazione dello Scarafaggio fu standardizzare l'ora di entrata e di uscita e preparò pure dei bellissimi report.
Ben presto fu necessaria una segretaria per aiutare a preparare i report, e quindi assunsero una Ragnetta, che organizzò gli archivi e si occupò del telefono.

E intanto la Formica produttiva e felice lavorava e lavorava.

Il Calabrone, gestore generale, era incantato dai report dello Scarafaggio supervisore, e così finì col chiedere anche quadri comparativi e grafici, indicatori di gestione ed analisi delle tendenze. Fu quindi necessario assumere una Mosca aiutante del supervisore e fu necessario un nuovo computer con stampante a colori.

Ben presto la Formica produttiva e felice smise di canticchiare le sue melodie e cominciò a lamentarsi di tutto il movimento di carte che c'era da fare.

Il Calabrone, gestore generale, pertanto, concluse che era il momento di adottare delle misure: crearono la posizione di gestore dell'area dove lavorava la Formica produttiva e felice. L'incarico fu dato ad una Cicala, che mise la moquette nel suo ufficio e fece comprare una poltrona speciale. Il nuovo gestore di area - è chiaro ebbe bisogno di un nuovo computer e quando si ha più di un computer e necessaria una Intranet. Il nuovo gestore ben presto ebbe bisogno di un assistente (Remora, gia suo aiutante nell'impresa precedente), che l'aiutasse a preparare il piano strategico e il budget per l'area dove lavorava la Formica produttiva e felice.

La Formica non canticchiava più ed ogni giorno si faceva più irascibile.

"Dovremo commissionare uno studio sull'ambiente lavorativo, un giorno di questi", disse la Cicala. Ma un giorno il gestore generale, al rivedere le cifre, si rese conto che l'unità, nella quale lavorava la Formica produttiva e felice, non rendeva più tanto. E così contattò il Gufo, prestigioso consulente, perché facesse una diagnosi della situazione. Il Gufo rimase tre mesi negli uffici ed emise un cervellotico report di vari volumi e di vari milioni di euro, che concludeva: "C'è troppa gente in questo ufficio." E cosi il gestore generale seguì il consiglio del consulente e licenziò la Formica incazzata, che prima era felice.

MORALE: Non ti venga mai in mente di essere una Formica produttiva e felice. E' preferibile essere inutile e incompetente. Gli incompetenti non hanno bisogno di supervisori, tutti lo sanno. Se, nonostante tutto, sei produttivo, non dimostrare mai che sei felice. Non te lo perdoneranno. Inventati ogni tanto qualche disgrazia, cosa che genera compassione.  Però, se nonostante tutto, ti impegni ad essere una Formica produttiva e felice, mettiti in proprio, almeno non vivranno sulle tue spalle calabroni, scarafaggi, ragnetti, mosche, cicale, remore e gufi.

giovedì 2 maggio 2013

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

Bellissima storia di ITALO CALVINO.
è del 1980 ...... Meditate!!! ...... Meditate!!!


Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

C’era un paese che si reggeva sull’illecito.
Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere.
Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale.
Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

lunedì 22 aprile 2013

Pietà per la Nazione - di Pier Paolo Pasolini


Pieta’ per la nazione i cui uomini sono pecore

e i cui pastori sono guide cattive
Pieta’ per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
Pieta’ per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pieta’ per la nazione che non conosce
nessun'altra lingua se non la propria
nessun' altra cultura se non la propria
Pieta’ per la nazione il cui fiato e’ danaro
e che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pieta’ per la nazione – oh, pieta’ per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
dolce terra di liberta’!
Pier Paolo Pasolini


sabato 20 aprile 2013

Euro. Quattro opzioni possibili ?



Quattro opzioni possibili ?

Più passa il tempo più la crisi si avvita su se stessa.
Forse è un bene!
Possibile!
Lo sarebbe sicuramete senza la carneficina sociale a cui assistiamo.
L’alternativa sarebbe una più lenta ed impercettibile agonia camuffata da riforme strutturali “necessarie”!
Necessarie a chi?
Come insegna bene il Prof. Bagnai non andremmo comunque da nessuna parte.
È altamente improbabile che l’Europa possa resistere per lungo tempo, rimanendo a metà strada, come lo è ora.
A questo punto, come in parte confermerebbe anche lo studio della Fondazione tedesca Friedrich-Ebert, si prefigurano quattro scenari possibili.
Primo scenario: realizzazione dei prerequisiti per essere una AVO.
L’accelerazione dell’integrazione europea senza la realizzazione di tutti i requisiti per essere una AVO, non può funzionare.
Su questi, irrinunciabili contenuti, il dibattito politico è lontano anni luce da trovare punti di convergenza.
Comunque in questo momento, vista la gravità della crisi, il fattore tempo è cruciale e non si possono realizzare riforme strutturali che presupporrebbero decenni (pure qualche cosa di più!!!!). Pertanto questo scenario, “scolastico”, è di fatto il meno probabile.
Si noti bene che il più Europa fiscale e politica, di cui si parla tanto oggi, non centra nulla con i prerequisiti per essere una AVO (vds goofynomics). Pertanto le riforme di cui parla la Germania, camuffata da Bruxelles, sono un’altra cosa. In quel caso saremmo nel secondo scenario.
Secondo scenario: prosecuzione dell'inazione politica.
Inazione politica uguale prosecuzione delle attuali politiche di austerità.
Queste politiche, dettate dal “karma” del controllo del deficit, sarebbero mitigate da pacchetti di aiuto condizionati alla preventiva realizzazione delle cosiddette “riforme strutturali”.  Ovvero quella del mercato del lavoro (con maggiore flessibilità in uscita) e drastico dimagrimento della struttura pubblica.
Questa soluzione, associata alla delega di sovranità fiscale e politica, porterebbe nella periferia ad un aumento vertiginoso della disoccupazione, con conseguente generale e progressivo impoverimento.
All'interno del continente europeo potrebbero emergere forti flussi migratori dalla periferia (Italia e Spagna in testa) verso il centro (Germania in testa). Fenomeno che si inizia ad intravedere!
Anche questa situazione mi pare difficilmente sostenibile dai Paesi del sud, perché le tensioni, già in "incubazione", finirebbero per esplodere ed evolvere in modo incontrollato.
Terzo scenario: creazione di una Europa a due velocità
I paesi del centro, quelli che fino ad ora hanno resistito meglio alla crisi, inizierebbero a porre a livello politico il problema di creare una Europa a due velocità.
Germania e paesi satelliti si integrerebbero ulteriormente, ma senza lasciare l’UEM.
Emergerebbe, nei fatti, una ancor più evidente spaccatura Nord-Sud, con  un nucleo di paesi ricchi (Nord), pronti a portare a termine sia l'unione fiscale che quella politica e una periferia (Sud) con sempre meno prospettive di ripresa economica, perché legata al vincolo monetario.
In questo scenario, le differenze, in termini di benessere, fra centro e periferia diventerebbero fonte costante di tensione politica.
Agli occhi della periferia, la situazione potrebbe apparire non-democratica, poiché le decisioni fondamentali verrebbero prese solo dal “centro”, pur impattando sull'intera UE. Gli stati della periferia sarebbero di fatto dominati da un “centro” a egemonia tedesca.
La crisi politica dei paesi della periferia si aggraverebbe ricadendo nel quarto scenario.
Quarto scenario: la disintegrazione dell'Eurozona e della UE.
Se la crisi della Politica dovesse aggravarsi con una contemporanea, permanente, situazione di stallo decisionale ed economico, potrebbe essere inevitabile fare i conti con la dissoluzione totale della Eurozona.
Intorno alla Germania, resisterebbe un blocco di paesi centrali, mantenendo la moneta comune, mentre i paesi in crisi del sud tornerebbero a valute nazionali (vale anche il contrario ovvero uscita della Germania dall'Euro).
Se non è troppo tardi, questo porterebbe l’orologio della unificazione al 1992. Dando l’opportunità al continente di ricucire gli strappi e ripartire lungo la strada dell’integrazione dei popoli nel rispetto della loro diversità.
Se il ritorno alle monete nazionali arriva troppo tardi, la coesione dell'UE sarebbe progressivamente erosa da rivendicazioni protezionistiche che metterebbero in discussione il commercio estero. Le ostilità fra le regioni europee, fra nord e sud, potrebbero subire una forte escalation, riprendendo i vecchi stereotipi nazionali. In questo scenario la disintegrazione dell'EU sarebbe inevitabile.
Come sottolinea uno studio della Fondazione tedesca Friedrich-Ebert, la disintegrazione potrebbe avvenire secondo il modello Sovietico oppure quello Jugoslavo; ovvero uno scioglimento pacifico, o alternativamente una guerra. 
In questo contesto, lo studio ipotizza una sorta di “sindrome da Mezzogiorno”: cioè le zone più ricche, di alcuni Paesi periferici, potrebbero sganciarsi (Catalogna e Nord Italia).
Se ciò si verificasse, Berlino avrebbe massimizzato il ritorno economico e politico del collasso dell'UE.

mercoledì 17 aprile 2013

SEMPLICE, COMPLICATO E COMPLESSO; PROBLEMA SEMANTICO E DI METODO





Riprendiamo il filo del discorso lasciato aperto in un post precedente (la parabola evolutiva della conoscenza).
Iniziamo a disegnare il paradigma della “complessità” dalla prospettiva linguistico-semantica.
Nell’uso quotidiano della lingua, per descrivere particolari concetti, utilizziamo sinonimi che, in quel particolare contesto, tali non sono.
Accade spesso!
Così succede anche per i termini “complicato” e “complesso”. Si finisce per parlare di cose complesse quando sono complicate o peggio si cominciamo a mischiare i metodi e gli approcci.
Un sistema è semplice o complicato quando è possibile conoscere e comprendere tutte le componenti e le relazioni intercorrenti; un sistema è complesso semplicemente quando tutto ciò non è ancora possibile. In un sistema complicato possiamo esercitare il controllo con ragionevole certezza, in un sistema complesso NO!
Elimino subito sul nascere un possibile dualismo tra complesso e complicato. Essendo il modello di osservazione costruito dall’uomo, quello che oggi ci appare un oggetto complesso domani potrebbe non esserlo più. Il linguaggio fisico-matematico, di oggi, ci permette di descrivere fenomeni dei quali, una volta, parlare sarebbe stato impossibile.
Allo stesso tempo per sistemi così complessi come l’uomo o anche piccoli gruppi di persone, è inconcepibile, al momento, una matematica ed una logica capace di descriverli completamente.
Tutto questo vuol dire che il livello di complessità è una qualità dell’osservatore piuttosto che dell’osservato. Pertanto esiste un continuum dentro e tra sistemi complicati e complessi.
Una interessante prospettiva, per comprendere la differenza tra complicato e complesso, ci è fornita dall’analisi etimologica dei due termini: complicato deriva dal latino cum plicum, dove plicum indica la piega di un foglio, mentre complesso deriva cum plexum, dove plexum indica il  nodo.
Questo ci introduce all’analisi della differenza che esiste nel trattare problemi complessi o complicati.
Di fronte ad un problema “complicato” la soluzione va trovata con un approccio analitico che trovi tra le “pieghe” ed i “fogli” la soluzione. Mentre la soluzione ad un problema “complesso” è nell’intricato intreccio generato dai “nodi” ovvero le relazioni intercorrenti tra gli elementi.
La differenza concettuale tra complicato e complesso sta proprio in questo: tra le pagine e pieghe di un libro, per quanto arduo e faticoso, si può sempre trovare il filo logico che tiene il tutto; mentre nei problemi, nelle strutture e nei sistemi a rete il tutto esprime proprietà e significati diversi da quelli dei fili che lo compongono.
Prendiamo a prestito l’esempio del tessuto: se ne scomponiamo l’ordito nei suoi “fili o componenti elementari, perveniamo ad un gruppo di fili che comunque analizzati nella loro somma non consentono più di rappresentare il sistema originale, cioè il tessuto”( De Toni A.F., Comello L., Prede e ragni, 2005, pag. 14).
Rispetto ai nostri antenati del Neolitico il patrimonio genetico è rimasto praticamente inalterato, ma molto è cambiato tutto attorno. “Siamo di solito troppo occupati nella celebrazione dell’intelligenza della nostra specie e di quali meraviglie essa ha prodotto per focalizzare l’attenzione sulle limitazioni della nostra mente”(Giancotti F., Shaharabani Y., The relevant warriors, Leadership and Agility in Complex Enviroments, The Industrial College of Armed Forces, National Defence University, Fort McNair, Washington D.C., AY 2005-2006). Così non ci accorgiamo che il metodo che ci ha consegnato la grandezza tra gli esseri viventi non è, da solo, più adeguato. Ancora oggi, indipendentemente dalla situazione in cui ci troviamo, usiamo dividere il problema nelle sue parti elementari (approccio top down) per poi analizzarne e ricostruirne le relazioni, arrivando al sistema originale (approccio bottom up).
In questo processo cerchiamo di capire quali siano i punti dove intervenire e come intervenire, al fine di influenzarne il comportamento secondo le nostre aspettative. L’evoluzione della nostra specie non ha preparato la mente per i sistemi e gli ambienti complessi. L’approccio riduzionista, analitico non va più bene; a meno che si voglia rinunciare ad una parte/aspetto del problema definendo solo una soluzione parziale. “Bisogna rinunciare a capire ... il fenomeno nelle sue pieghe o fili e concentrarsi nella comprensione dell’intero sistema, considerato nel suo insieme”. Nelle organizzazioni i problemi complicati vanno affrontati e risolti secondo un approccio analitico, mentre quelli complessi secondo un approccio network oriented; entrambi gli approcci devono coesistere nella struttura, nelle procedure e nella filosofia manageriale (Giancotti F., op. cit.).
 


mercoledì 3 aprile 2013

EUROPA - è l'ora dei messaggi subliminali


chi ha privilegio e potere per scrivere su un giornale a grande tiratura dovrebbe stare attento ai messaggi subliminali. così tanto per non fare terrorismo!!!! Oggi la prestigiosa coppia di economisti del Corriere (Alesina - Giavazzi) ne ha distribuito un po a gratis!!!

http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_03/alesina-giavazzi-a-corto-di-idee-senza-capitali_983f84f2-9c1c-11e2-aac9-bc82fb60f3c7.shtml

VEDIAMO INSIEME  




" I tempi della democrazia e della politica mal sopportano vincoli esterni, sia quelli che derivano dai nostri impegni europei (DI QUALI VINCOLI PARLANO???    QUALCUNO CE LI HA MAI SPIEGATI??    CI HANNO MAI CHIESTO COSA NE PENSAVAMO ???? ), sia quelli imposti da chi possiede i titoli del nostro debito pubblico (MA CHI GLI SPECULATORI ????   IN UN SISTEMA CAPITALISTICO IN CAPO AL CREDITORE STA L'ONERE DELLA VALUTAZIONE DEL DEBITORE O NO ??? ). L'apparente tranquillità dei mesi recenti può indurre nell'errore di farci sentire liberi di decidere (BENE! VEDO CHE ORA NON SIAMO PIU' LIBERI DI DECIDERE! AH SI! IL MESSAGGIO è: ANCHE SE I PRECEDENTI MESI SONO STATI TRANQUILLI, ORA NON VI ALLARGATE TROPPO. RICORDATEVI CHE NON AVETE PIU' SOVRANITA' ), di muoverci nella direzione in cui ci porta la navicella del fragile equilibrio politico. Non è così"  .
" .....La soluzione adottata per salvare le banche di Cipro potrebbe cambiare il modo in cui d'ora in avanti verranno affrontate le crisi bancarie nell'area euro (MESSAGGIO - ABBASSATE LA CODA VOI NON SIETE LIBERI. SE FATE INCAZZARE L'EUROPA - OVVERO LA GERMANIA -VI TOLGONO IL SOLDI DAL CONTO CORRENTE. QUINDI ESEGUITE GLI ORDINI E ZITTI),. Tre anni fa le banche irlandesi furono salvate facendo pagare un conto salatissimo ai contribuenti e proteggendo tutti i depositanti (grandi e piccoli) e chi ne aveva acquistato le obbligazioni. A Cipro invece lo Stato non interverrà: i 10 miliardi di euro che l'isola riceverà dall'Europa non potranno essere usati per salvare le banche. Le loro perdite verranno assorbite da chi vi aveva investito, acquistandone azioni, obbligazioni o aprendo un conto corrente. Verranno salvati solo i depositi di ammontare inferiore ai 100 mila euro (MESSAGGIO - GUARDATE CHE NON SCHERZANO! IN IRLANDA GLI HANNO SALVATI. A CIPRO HANNO SALVATO QUELLI SOTTO CENTOMILA EURO. IN ITALIA POTREBBE ANDARE PEGGIO...... UOMO AVVISATO MEZZO SALVATO).

"Questa decisione ha due conseguenze:
1) da oggi rafforzare il patrimonio delle banche (il tallone d'Achille del sistema finanziario europeo) è più difficile, perché chi ne acquista le azioni o le obbligazioni deve affrontare un rischio maggiore;
2) una parte dell'attività bancaria potrebbe emigrare verso i Paesi le cui banche sono più solide
.
(SCUSATE MA CHE CI HANNO FATTO CON I SOLDI DEI TREMONTI BOND E CON I SOLDI DELLA BCE ?????? PER CASO INVECE DI AIUTARE LE IMPRESE SI SONO MESSI A FARE CARRY TRADING ????? O PER CASO HANNO SPECULATO PURE LORO CON LO SPREAD ACQUISENDO TITOLI ITALIANI A TASSI CHE GLI HANNO PERMESSO DI RIPAGARE CAPITALE ED INTERESSE ALLA BCE ED INTASCARSI IL DIFFERENZIALE?????)

"Per noi sono tutte cattive notizie. Uno degli ostacoli alla crescita, nel breve termine forse il maggiore, è la scarsità di capitale di cui dispongono le banche. Il motivo principale per cui esse lesinano il credito è che hanno troppo poco capitale. Hanno molta liquidità, grazie ai finanziamenti della Bce, ma per fare un prestito e sostenere l'economia la liquidità non basta, serve anche il capitale, cioè la riserva che la banca deve mettere da parte per far fronte a prestiti non rimborsati. E oggi nella recessione ciò accade sempre più spesso. Le banche italiane tradizionalmente hanno sempre avuto relativamente poco capitale: uno dei motivi è che i loro padroni, le fondazioni bancarie, hanno risorse limitate, ma non vogliono perdere il controllo delle banche, quindi scoraggiano gli aumenti di capitale sul mercato (E CERTO!!! TANTO POI C'E' LO STATO PANTALONE CHE PAGA .... OVVERO NOI).
L'altra conseguenza della crisi di Cipro è che le parole oggi contano di più. Gli investitori saranno ora attentissimi a qualunque proposta di tassare i depositi bancari, o di ristrutturare il debito, come fece Mussolini nel 1926 (UN PO DI HORROR NON FA MAI MALE!!!), o di rinegoziare gli impegni presi con l'Europa (ECCO MAGARI, SAREBBE ORA), o addirittura di considerare un'uscita dall'euro (FOSS A' MARONN!!!). In questo momento così delicato, non solo le azioni ma anche le parole pesano (APPUNTO!), e nel mezzo di una crisi politica fra le più difficili del dopoguerra, di parole senza senso se ne ascoltano parecchie (ECCO BRAVI DOPO AVER SOSTENUTO PER ANNI CHE L'EURO CI AVREBBE SALVATO, FATE UNA BELLA COSA .... Statt citt e assit-t ... COME DICONO A BARI).

mercoledì 27 marzo 2013

Che strada prenderà la scomposizione degli equilibri europei ?



Samuel Huntington nel suo articolo the clash of civilization, pubblicato su Foreign Affairs nell’estate del 1993, descrisse le relazioni internazionali, come un sistema caratterizzato da “linee faglia”, che vengono determinate, prevalentemente, da differenze culturali e religiose, piuttosto che da divisioni politico ideologiche. Sebbene Huntington parlasse di un fronte est-ovest (Occidente contro Cina e Islam), oggi sembrerebbe configurarsi una possibile faglia intraeuropea nord-sud.
La “crisi dei debiti sovrani”, da un lato, ha messo a nudo i difetti di costruzione della unità monetaria, dall’altro ha riacceso antiche rivalità, differenze culturali e alimentato stereotipi che vengono utilizzati, sempre più spesso, come strumenti “unici ed esaustivi” per spiegare le ragioni della crisi.
Così la moneta che era nata per unire l’Europa rischia di spaccarla, anche perché se crolla l’euro, crolla l’Europa.
Questa crisi è sistemica e complessa; tutto è collegato! Il tramonto degli USA, l’indecifrata ascesa di nuove potenze (Cina, India) e la ripresa russa, ridefiniscono uno scenario in continua decomposizione di cui anche noi, europei, siamo alternativamente osservatori o attori protagonisti.
Guardando al nostro continente, secondo una prospettiva temporale di lungo periodo, si possono intravedere due processi interconnessi che, potenzialmente, potrebbero riscrivere gli equilibri geopolitici (interni ed esterni).
Il primo, sul piano dell’equilibrio esterno, realizza, per certi versi, la previsione di Hunnington, attraverso una scomposizione regionale ed una conseguente redistribuzione del potere e delle alleanze. L’Europa da una parte coltiva l’asse atlantico ambendo ad una completa emancipazione in un rapporto tra pari, ma contemporaneamente, dall’altra, guarda con sempre maggior interesse ad est; oltre l’allargamento. Verso la Russia, il Caucaso e l’Asia.
Il secondo processo, quello sul piano degli equilibri interni, è il meno definito con una Europa sospesa tra due possibili percorsi evolutivi. Il primo rappresentato da una lenta, ma progressiva trasformazione in una regione federata, ma solo per necessità, in cui i rapporti saranno sempre meno tra pari. Il secondo la deriva verso una incontrollata decomposizione geopolitica, di stampo neo-nazionalista, non necessariamente pacifica.
“Chiunque creda che le questioni della pace e della guerra siano eternamente risolte in Europa potrebbe commettere un errore monumentale. I demoni non sono ancora stati cacciati; essi stanno semplicemente dormendo, come le guerre in Bosnia e Kosovo ci hanno mostrato. Sono sorpreso nel constatare di come le circostanze dell’Europa del 2013 somiglino a quelle di cent’anni fa” (JC Juncker, Der Spiegel, 11 marzo 2013).