mercoledì 27 marzo 2013

Che strada prenderà la scomposizione degli equilibri europei ?



Samuel Huntington nel suo articolo the clash of civilization, pubblicato su Foreign Affairs nell’estate del 1993, descrisse le relazioni internazionali, come un sistema caratterizzato da “linee faglia”, che vengono determinate, prevalentemente, da differenze culturali e religiose, piuttosto che da divisioni politico ideologiche. Sebbene Huntington parlasse di un fronte est-ovest (Occidente contro Cina e Islam), oggi sembrerebbe configurarsi una possibile faglia intraeuropea nord-sud.
La “crisi dei debiti sovrani”, da un lato, ha messo a nudo i difetti di costruzione della unità monetaria, dall’altro ha riacceso antiche rivalità, differenze culturali e alimentato stereotipi che vengono utilizzati, sempre più spesso, come strumenti “unici ed esaustivi” per spiegare le ragioni della crisi.
Così la moneta che era nata per unire l’Europa rischia di spaccarla, anche perché se crolla l’euro, crolla l’Europa.
Questa crisi è sistemica e complessa; tutto è collegato! Il tramonto degli USA, l’indecifrata ascesa di nuove potenze (Cina, India) e la ripresa russa, ridefiniscono uno scenario in continua decomposizione di cui anche noi, europei, siamo alternativamente osservatori o attori protagonisti.
Guardando al nostro continente, secondo una prospettiva temporale di lungo periodo, si possono intravedere due processi interconnessi che, potenzialmente, potrebbero riscrivere gli equilibri geopolitici (interni ed esterni).
Il primo, sul piano dell’equilibrio esterno, realizza, per certi versi, la previsione di Hunnington, attraverso una scomposizione regionale ed una conseguente redistribuzione del potere e delle alleanze. L’Europa da una parte coltiva l’asse atlantico ambendo ad una completa emancipazione in un rapporto tra pari, ma contemporaneamente, dall’altra, guarda con sempre maggior interesse ad est; oltre l’allargamento. Verso la Russia, il Caucaso e l’Asia.
Il secondo processo, quello sul piano degli equilibri interni, è il meno definito con una Europa sospesa tra due possibili percorsi evolutivi. Il primo rappresentato da una lenta, ma progressiva trasformazione in una regione federata, ma solo per necessità, in cui i rapporti saranno sempre meno tra pari. Il secondo la deriva verso una incontrollata decomposizione geopolitica, di stampo neo-nazionalista, non necessariamente pacifica.
“Chiunque creda che le questioni della pace e della guerra siano eternamente risolte in Europa potrebbe commettere un errore monumentale. I demoni non sono ancora stati cacciati; essi stanno semplicemente dormendo, come le guerre in Bosnia e Kosovo ci hanno mostrato. Sono sorpreso nel constatare di come le circostanze dell’Europa del 2013 somiglino a quelle di cent’anni fa” (JC Juncker, Der Spiegel, 11 marzo 2013).

domenica 3 marzo 2013

La “parabola evolutiva” della conoscenza: da Cartesio al “Pensiero Complesso”



….. condivido con voi un estratto di un mio precedente studio del 2004 che reputo quanto mai attuale … !!!

Vorrei sottoporvi questa provocazione:
il metodo cartesiano è ancora valido?
Ritengo decisamente si!      Ma oggi, è altresì necessario ricollocare il “metodo riduzionista” in una nuova prospettiva, attraverso un approfondimento, sul tema della “conoscenza” e sulla sua costruzione. Secondo un approccio che integra il pensiero filosofico e la teoria sulla complessità, mettendo in discussione i princìpi riferibili al pensiero cartesiano ed il loro modo di condurci alla decodifica e comprensione del mondo.
Iniziamo!
Da dove?
L’impero della ragione avrebbe una lunga storia! Ma preferisco partire da Platone.
Platone concepiva la mente separata dal corpo e conferiva alla razionalità il primato assoluto, ne è una brillante metafora il “mito della Biga”. In uno dei Dialoghi (il Fedro), indagando sulle condizioni di base per la costruzione della conoscenza, ci dona una straordinaria metafora sulla “psiche”, assimilandola ad una biga condotta dall’auriga, rappresentante la ragione, e trainata da due cavalli. Un cavallo nero, che simboleggia gli impulsi meno nobili quali la passione, i sentimenti e le pulsioni istintive (l’irrazionalità), ed cavallo bianco, che rappresenta le idee razionali e la sottomissione della mente alla razionalità (volontà). Il compito dell’auriga (ragione) è quello di guidare la biga verso l’alto, verso l’iperuranio; luogo dove risiedono tutte le idee e dove può essere conquistata la vera saggezza. Sebbene nel pensiero platonico alla parte irrazionale della psiche venga, comunque, riconosciuta una incidenza nella evoluzione del pensiero e nella costruzione della conoscenza, la frattura fondamentale del pensiero moderno viene generata.
Con Cartesio, il solco si approfondisce e la scissione diviene “istituzionale”.
La mente venne ridotta alla sola res cogitans (la componente razionale). Una idea che è supportata e consolidata dai traguardi che il genere umano, progressivamente, raggiunge grazie proprio a questo paradigma. L’uomo scompone top-down e ricostruisce bottom-up: il progresso gli arride. Non c’è spazio per il complesso, ma solo relazioni “lineari”.
Oggi continuiamo a parlare di “pensiero cartesiano”, anche se quello che è giunto fino a noi è una evoluzione molto diversa dal pensiero del filosofo e matematico francese. È il risultato dello sviluppo di un “approccio mentale” passato attraverso pensatori come Spinoza, Leibniz e Kant.
Oggi l’imperante primato della “razionalità” traspare, inequivocabilmente, dalla costante pretesa umana di ingabbiare il mondo e la conoscenza in modelli razionali estremi.
Ma il metodo riduzionista ha anche creato diversi livelli-classi di merito e affidabilità, tra approccio cartesiano e sistemico (complesso). Prendendo a prestito la metafora di Cartesio, il Sé pensante alloggia nello spirito ed è separato dal corpo, casa dell’emotività, quindi della imperfetta non-razionalità, in questo modo, l’uomo, ispirandosi alla supremazia della ragione, si separa dal corpo e dal mondo materiale per sancire la sua supremazia sul resto del creato. Cartesiano è corretto, mentre sistemico è sbagliato.
È nel “cogito ergo sum” la scintilla originatrice di tutti quei dualismi che ancora oggi condizionano il nostro modo di pensare e sorreggono i nostri modelli di analisi. Dalla separazione delle res cogitans e res extensa prendono l’avvio tutte le dicotomie e la tendenza alla divisione e agli antagonismi: mente-corpo; razionale-emotivo; vero-falso; Scienza-Filosofia.
La convinzione di poter piegare il mondo alle leggi universali della ragione ha generato specializzazione e separazione tra le diverse discipline scientifiche. Questo, conseguentemente, ha creato dei veri e propri regni e, di riflesso, tra questi, barriere e spazi di incomunicabilità.
L’intuizione di un mondo dominato dalla diversità è stata progressivamente soffocata dalla semplificazione, strumentale al desiderio di esercitare il massimo controllo sul “regno” in questione. 
Secondo il pensiero scientifico, non ci possono essere ambiguità ed allora dobbiamo “ridurre” ai minimi termini escludendo quei fattori che, nella nostra limitatezza, ci arroghiamo il diritto di ritenere ininfluenti.
È andato tutto bene finché non siamo piombati nell’era dell’informazione ed un senso di precarietà ed inadeguatezza ha preso il sopravvento, frutto del fatto che il mondo reale non si comporta più come il mondo virtuale che è ricostruito dalla ragione, attraverso gli archetipi e le idee eterne, subordinate le une alle altre secondo nessi causali lineari e reversibili. 
Quindi un mondo non più prevedibile!
Le certezze basate sul riduzionismo, l’oggettività e la reversibilità delle costruzioni razionali vacillano e crollano, progressivamente, di fronte alla crescente complessità dei sistemi socio-biologici come quelli umani. Poiché non vi può più essere corrispondenza assoluta tra sapere e realtà, al princìpio di non ambiguità si sostituisce il princìpio di incertezza (E. Morin); per l’influenza deviante che esercita il modello d’osservazione, costruito dall’uomo, e per la fluidità con cui la realtà oggettiva cambia nel tempo.
A questo proposito, un esempio, degno di nota, ci è fornito dalla Fisica quantistica. Parliamo del “princìpio di indeterminazione di Heisenberg” e della associata nota “interpretazione di Copenaghen”. Werner Heisenberg nel 1927 sostenne che non fosse possibile, in alcun modo, conoscere simultaneamente e con esattezza sia la “posizione” che la “quantità di moto” di un dato oggetto. Per capire il concetto, a livello di particelle elementari si può prevedere con un certo grado di probabilità il fatto che un fotone passi in un certa porzione di spazio, ma non il suo esatto percorso. L’interpretazione va oltre dichiarando che il percorso non è prevedibile in alcun modo, conseguentemente non è determinabile l’influenza sulle altre particelle. La interpretazione di Copenaghen, data dallo stesso Heisenberg insieme a Niels Bohr, tenta di risolvere i dubbi e le critiche sorte in seno alla meccanica quantistica ed alle sue regole. Nello stesso tempo, però, proprio perché si esprime nell’ambito della Scienza per eccellenza ovvero la Fisica, ci fornisce interessanti spunti di riflessione generalizzabili, con necessaria cautela, entro altri ambiti di indagine. Secondo questa interpretazione, le affermazioni probabilistiche e l’approccio statistico-sistemico vengono utilizzati, in meccanica quantistica, non tanto per sopperire all’irriducibilità ed alla non determinabilità delle sue stesse affermazioni, ma piuttosto per rispondere al fatto che l’universo fisico così come noi lo percepiamo non esiste in forma deterministica. 
Generalizzando: l’universo è un sistema di sistemi, dominati dalla probabilità.
La proprietà, che ci pare “emergente” e conseguentemente trasportabile nell’ambito filosofico, è che non essendo possibile conoscere l’influenza dell’osservatore sull’ambiente osservato, non sarà mai possibile eliminare l’influenza sull’osservazione dell’osservatore stesso; quindi è impossibile avere conoscenza assoluta
Non solo, questo “emerge” come coprotagonista dell’azione conoscitiva e della sua trasformazione: “il serpente che si morde la coda; il cervello che spiega e si piega al cervello ... l’emergere dell’osservatore come protagonista di qualsiasi azione conoscitiva ... e la cui influenza ... non può essere eliminata. Cade il concetto di oggettività, di certezza o di verità assoluta dato che una delle qualità di una descrizione oggettiva è che le proprietà dell’osservatore non vi rientrino, non la influenzino o la determino”.
“Il princìpio di indeterminazione di Heisenberg ... invita ... a riconsiderare l’intero edificio del sapere umano, ritrovando non fratture al suo interno, ma reti e linee di continuità, da cui emergono proprietà nuove  e nuovi spunti per la ricerca conoscitiva” (Mascolo 2005).
L’approccio statistico-sistemico diventa uno strumento necessario per interpretare e ricostruire in modo nuovo la conoscenza.
Il fatto di considerare l’influenza dell’osservatore non conclude completamente il nostro ragionamento, anzi introduce un ulteriore dualismo da risolvere: Soggetto-Oggetto. Ciò è chiarito nel momento in cui non si considera più il mondo come qualcosa di esterno all’essere vivente; al contrario, il soggetto ne fa parte col suo agire fisico e lo percepisce proprio in virtù dell’esperienza concreta. La cognizione si esplica attraverso l’azione pratica e la stessa realtà è contenuta in un continuum osservazione-pensiero-azione, tutt’uno inseparabile.
“Ogni vivente è tale perché attua processi cognitivi e la conoscenza non può non essere incorporata negli organismi viventi, la cui struttura si autorganizza in un corpo” (Mascolo 2005). Esiste una “circolarità tra azione ed esperienza e tra azione e conoscenza ... la conoscenza è azione incarnata, operatività inseparabile dal corpo fisico dell’individuo, dalla sua costituzione biologica e dal suo personale vissuto, dalla struttura attuale del soggetto che percepisce, agisce, conosce e che una sua spiegazione, senza pretese di oggettività, deriva da una ontologia che pone l’oggettività tra parentesi, mentre il mondo ed il soggetto sono condeterminati, si definiscono ed emergono nell’azione” ( Maturana H. R., Varela F.).
Questa nuova visione scardina il “cognitivismo” tradizionale in cui il cervello, a modo di “sistema idraulico”, elabora e trasporta le informazioni lungo una catena nesso-causale monodimensionale ed è capace di riprodurre fedelmente la realtà come un oggetto separato (argomento che tratterò in prossimo post). Ora vogliamo vedere il cervello come un sistema di sistemi complessi, in cui la “mente” e la “razionalità” ne costituiscono le proprietà emergenti. Il “pensiero ... ha una struttura sistemica e la totalità dell’esistente è un intero senza fratture ad esso collegato, nello scorrere continuo degli eventi e delle cose”.
Secondo questa visione legata ai concetti della “complessità”, la conoscenza si profila come il risultato di processi biologici di adattamento ed evoluzione. In questo senso psiche e corpo rappresentano due livelli di complessità differente. Come vedremo solo quegli organismi che si sono mantenuti tra ordine e caos hanno avuto la capacità di adattarsi all’ambiente e sopravvivere.
In questo senso ricuciamo lo strappo generato dalla visione cartesiana tra razionalità ed emotività; perché questi stessi sistemi complessi interagendo, in una sorta di accoppiamento strutturale, generano un sistema superiore che è la mente. Il sapere, quindi, non può essere più delimitabile entro “regni” specifici, ma come un qualche cosa di organico i cui confini interni ed esterni vengono continuamente ridefiniti.
Con questo approccio “sistemico” non si fa più riferimento ad una unica verità, anzi essa è percepita nell’osservazione di molteplici punti di vista non necessariamente sintetizzabili in un unico quadro di riferimento.
Di conseguenza anche la nostra interazione con il mondo non è più concepibile come puntuale, secondo un princìpio azione unica, reazione, feedback, ma al contrario deve essere concepita come complesso di interventi multidimensionali e multitipici, in ognuno dei quali va trovato l’elemento di convergenza rispetto all’outcome desiderato.
Una ulteriore considerazione è che la complessità di oggi può non esserlo più domani, perché i modelli che la rappresentano evolvono con essa.
Il passaggio dalla singola disciplina ad un atteggiamento “transdisciplinare” è simile allo spostamento, di un sistema complesso, dalla stasi di un equilibrio cristallizzato alla situazione al margine del caos; proprio dove è possibile l’evoluzione, così al margine delle “scienze” e nel continuum tra queste che si trova il nuovo orizzonte della conoscenza.
“La razionalità modella il formale nelle discipline, ma qualcosa sfugge al formalismo, proprio al confine di ciascuna disciplina, sull’orlo dell’abisso, lasciando spazio alla creatività, mentre i nuovi abitanti di Utopia costruiscono trame attraverso l’universo della conoscenza, lavorando per creare un Nuovo Mondo, coraggioso e diverso”.
Benvenuti nel mondo della complessità e buon viaggio!