….. condivido con voi un estratto di un mio precedente
studio del 2004 che reputo quanto mai attuale … !!!
Vorrei sottoporvi questa
provocazione:
il metodo cartesiano è ancora valido?
Ritengo decisamente si! Ma oggi, è altresì necessario
ricollocare il “metodo riduzionista” in una nuova prospettiva, attraverso
un approfondimento, sul tema della “conoscenza” e sulla sua costruzione. Secondo
un approccio che integra il pensiero filosofico e la teoria sulla complessità,
mettendo in discussione i princìpi riferibili al pensiero cartesiano ed il loro
modo di condurci alla decodifica e comprensione del mondo.
Iniziamo!
Da dove?
L’impero
della ragione avrebbe una lunga storia! Ma preferisco partire da Platone.
Platone concepiva la mente
separata dal corpo e conferiva alla razionalità il primato assoluto, ne è una
brillante metafora il “mito della Biga”. In uno dei Dialoghi (il Fedro),
indagando sulle condizioni di base per la costruzione della conoscenza, ci
dona una straordinaria metafora sulla “psiche”, assimilandola ad una biga
condotta dall’auriga, rappresentante la ragione, e trainata da due cavalli. Un
cavallo nero, che simboleggia gli impulsi meno nobili quali la passione, i
sentimenti e le pulsioni istintive (l’irrazionalità), ed cavallo bianco, che
rappresenta le idee razionali e la sottomissione della mente alla razionalità
(volontà). Il compito dell’auriga (ragione) è quello di guidare la biga verso
l’alto, verso l’iperuranio; luogo
dove risiedono tutte le idee e dove può essere conquistata la vera saggezza. Sebbene
nel pensiero platonico alla parte irrazionale della psiche venga, comunque,
riconosciuta una incidenza nella evoluzione del pensiero e nella costruzione
della conoscenza, la frattura fondamentale del pensiero moderno viene generata.
Con Cartesio, il solco si
approfondisce e la scissione diviene “istituzionale”.
La mente venne ridotta
alla sola res cogitans (la componente
razionale). Una idea che è supportata e consolidata dai traguardi che il genere
umano, progressivamente, raggiunge grazie proprio a questo paradigma. L’uomo
scompone top-down e ricostruisce bottom-up: il progresso gli arride. Non c’è spazio per
il complesso, ma solo relazioni “lineari”.
Oggi continuiamo a parlare
di “pensiero cartesiano”, anche se quello che è giunto fino a noi è una
evoluzione molto diversa dal pensiero del filosofo e matematico francese. È il
risultato dello sviluppo di un “approccio mentale” passato attraverso pensatori
come Spinoza, Leibniz e Kant.
Oggi l’imperante primato
della “razionalità” traspare, inequivocabilmente, dalla costante pretesa umana
di ingabbiare il mondo e la conoscenza in modelli razionali estremi.
Ma il metodo riduzionista
ha anche creato diversi livelli-classi di merito e affidabilità, tra approccio cartesiano
e sistemico (complesso). Prendendo a prestito la metafora di Cartesio, il Sé
pensante alloggia nello spirito ed è separato dal corpo, casa dell’emotività,
quindi della imperfetta non-razionalità, in questo modo, l’uomo, ispirandosi
alla supremazia della ragione, si separa dal corpo e dal mondo materiale per
sancire la sua supremazia sul resto del creato. Cartesiano è corretto, mentre sistemico è sbagliato.
È nel “cogito ergo sum” la scintilla
originatrice di tutti quei dualismi che ancora oggi condizionano il nostro modo
di pensare e sorreggono i nostri modelli di analisi. Dalla separazione delle res cogitans e res extensa prendono l’avvio tutte le dicotomie e la tendenza alla
divisione e agli antagonismi: mente-corpo; razionale-emotivo; vero-falso;
Scienza-Filosofia.
La convinzione di poter
piegare il mondo alle leggi universali della ragione ha generato
specializzazione e separazione tra le diverse discipline scientifiche. Questo,
conseguentemente, ha creato dei veri e propri regni e, di riflesso, tra questi,
barriere e spazi di incomunicabilità.
L’intuizione di un mondo
dominato dalla diversità è stata progressivamente soffocata dalla
semplificazione, strumentale al desiderio di esercitare il massimo controllo
sul “regno” in questione.
Secondo il pensiero scientifico, non ci possono
essere ambiguità ed allora dobbiamo “ridurre” ai minimi termini escludendo quei
fattori che, nella nostra limitatezza, ci arroghiamo il diritto di ritenere
ininfluenti.
È andato tutto bene finché
non siamo piombati nell’era dell’informazione ed un senso di precarietà ed
inadeguatezza ha preso il sopravvento, frutto del fatto che il mondo reale non
si comporta più come il mondo virtuale che è ricostruito dalla ragione,
attraverso gli archetipi e le idee eterne, subordinate le une alle altre
secondo nessi causali lineari e reversibili.
Quindi un mondo non più
prevedibile!
Le certezze basate sul
riduzionismo, l’oggettività e la reversibilità delle costruzioni razionali
vacillano e crollano, progressivamente, di fronte alla crescente complessità
dei sistemi socio-biologici come quelli umani. Poiché non vi può più essere
corrispondenza assoluta tra sapere e realtà, al princìpio di non ambiguità si
sostituisce il princìpio di incertezza (E.
Morin); per l’influenza deviante che esercita il modello d’osservazione,
costruito dall’uomo, e per la fluidità con cui la realtà oggettiva cambia nel
tempo.
A questo proposito, un
esempio, degno di nota, ci è fornito dalla Fisica quantistica. Parliamo del “princìpio di indeterminazione di Heisenberg”
e della associata nota “interpretazione
di Copenaghen”. Werner Heisenberg nel 1927 sostenne che non fosse possibile,
in alcun modo, conoscere simultaneamente e con esattezza sia la “posizione” che
la “quantità di moto” di un dato oggetto. Per capire il concetto, a livello di
particelle elementari si può prevedere con un certo grado di probabilità il
fatto che un fotone passi in un certa porzione di spazio, ma non il suo esatto
percorso. L’interpretazione va oltre dichiarando che il percorso non è
prevedibile in alcun modo, conseguentemente non è determinabile l’influenza sulle
altre particelle. La interpretazione di Copenaghen, data dallo stesso
Heisenberg insieme a Niels Bohr, tenta di risolvere i dubbi e le critiche sorte
in seno alla meccanica quantistica ed alle sue regole. Nello stesso tempo,
però, proprio perché si esprime nell’ambito della Scienza per eccellenza ovvero
la Fisica, ci
fornisce interessanti spunti di riflessione generalizzabili, con necessaria
cautela, entro altri ambiti di indagine. Secondo questa interpretazione, le affermazioni probabilistiche e l’approccio
statistico-sistemico vengono utilizzati, in meccanica quantistica, non
tanto per sopperire all’irriducibilità ed alla non determinabilità delle sue
stesse affermazioni, ma piuttosto per
rispondere al fatto che l’universo fisico così come noi lo percepiamo non
esiste in forma deterministica.
Generalizzando: l’universo è un sistema di sistemi, dominati dalla probabilità.
La proprietà, che ci pare
“emergente” e conseguentemente trasportabile nell’ambito filosofico, è che non essendo possibile conoscere l’influenza
dell’osservatore sull’ambiente osservato, non sarà mai possibile eliminare l’influenza sull’osservazione
dell’osservatore stesso; quindi è impossibile avere conoscenza assoluta.
Non solo, questo “emerge” come coprotagonista dell’azione conoscitiva e della
sua trasformazione: “il serpente che si morde la coda; il cervello che spiega e
si piega al cervello ... l’emergere dell’osservatore come protagonista di
qualsiasi azione conoscitiva ... e la cui influenza ... non può essere
eliminata. Cade il concetto di oggettività, di certezza o di verità assoluta
dato che una delle qualità di una descrizione oggettiva è che le proprietà
dell’osservatore non vi rientrino, non la influenzino o la determino”.
“Il princìpio di
indeterminazione di Heisenberg ... invita ... a riconsiderare l’intero edificio
del sapere umano, ritrovando non
fratture al suo interno, ma reti e
linee di continuità, da cui emergono proprietà nuove e nuovi spunti per la ricerca conoscitiva” (Mascolo
2005).
L’approccio
statistico-sistemico diventa uno strumento necessario per interpretare e
ricostruire in modo nuovo la conoscenza.
Il fatto di considerare
l’influenza dell’osservatore non conclude completamente il nostro ragionamento,
anzi introduce un ulteriore dualismo da risolvere: Soggetto-Oggetto. Ciò è
chiarito nel momento in cui non si considera più il mondo come qualcosa di
esterno all’essere vivente; al contrario, il soggetto ne fa parte col suo agire
fisico e lo percepisce proprio in virtù dell’esperienza concreta. La cognizione si esplica attraverso
l’azione pratica e la stessa realtà è contenuta in un continuum osservazione-pensiero-azione,
tutt’uno inseparabile.
“Ogni vivente è tale
perché attua processi cognitivi e la conoscenza non può non essere incorporata
negli organismi viventi, la cui struttura si autorganizza in un corpo” (Mascolo
2005). Esiste una “circolarità tra azione ed esperienza e tra azione e
conoscenza ... la conoscenza è azione
incarnata, operatività inseparabile dal corpo fisico dell’individuo, dalla
sua costituzione biologica e dal suo personale vissuto, dalla struttura attuale
del soggetto che percepisce, agisce, conosce e che una sua spiegazione, senza
pretese di oggettività, deriva da una ontologia che pone l’oggettività tra
parentesi, mentre il mondo ed il soggetto sono condeterminati, si definiscono
ed emergono nell’azione” ( Maturana H. R., Varela F.).
Questa nuova visione
scardina il “cognitivismo” tradizionale in cui il cervello, a modo di “sistema
idraulico”, elabora e trasporta le informazioni lungo una catena nesso-causale
monodimensionale ed è capace di riprodurre fedelmente la realtà come un oggetto
separato (argomento che tratterò in prossimo post). Ora vogliamo vedere il
cervello come un sistema di sistemi complessi, in cui la “mente” e la
“razionalità” ne costituiscono le proprietà emergenti. Il “pensiero ... ha una struttura sistemica e la totalità
dell’esistente è un intero senza fratture ad esso collegato, nello scorrere
continuo degli eventi e delle cose”.
Secondo questa visione
legata ai concetti della “complessità”, la
conoscenza si profila come il risultato di processi biologici di adattamento ed
evoluzione. In questo senso psiche e corpo rappresentano due livelli di
complessità differente. Come vedremo solo
quegli organismi che si sono mantenuti tra ordine e caos hanno avuto la
capacità di adattarsi all’ambiente e sopravvivere.
In questo senso ricuciamo
lo strappo generato dalla visione cartesiana tra razionalità ed emotività;
perché questi stessi sistemi complessi interagendo, in una sorta di
accoppiamento strutturale, generano un sistema superiore che è la mente. Il sapere, quindi, non può essere più delimitabile entro “regni” specifici, ma come un
qualche cosa di organico i cui confini interni ed esterni vengono continuamente
ridefiniti.
Con questo approccio
“sistemico” non si fa più riferimento ad
una unica verità, anzi essa è percepita nell’osservazione di molteplici punti
di vista non necessariamente sintetizzabili in un unico quadro di riferimento.
Di conseguenza anche la nostra interazione con il mondo non
è più concepibile come puntuale, secondo un princìpio azione unica, reazione, feedback, ma al contrario deve essere concepita come complesso di
interventi multidimensionali e multitipici, in ognuno dei quali va trovato
l’elemento di convergenza rispetto all’outcome
desiderato.
Una ulteriore
considerazione è che la complessità di oggi può non esserlo più domani, perché
i modelli che la rappresentano evolvono con essa.
Il passaggio dalla singola
disciplina ad un atteggiamento “transdisciplinare” è simile allo spostamento,
di un sistema complesso, dalla stasi di un equilibrio cristallizzato alla
situazione al margine del caos; proprio dove è possibile l’evoluzione, così al margine delle “scienze” e nel continuum
tra queste che si trova il nuovo orizzonte della conoscenza.
“La razionalità modella il
formale nelle discipline, ma qualcosa sfugge al formalismo, proprio al confine
di ciascuna disciplina, sull’orlo dell’abisso, lasciando spazio alla
creatività, mentre i nuovi abitanti di Utopia costruiscono trame attraverso
l’universo della conoscenza, lavorando per creare un Nuovo Mondo, coraggioso e
diverso”.
Benvenuti nel mondo della
complessità e buon viaggio!